Il secondo contributo di Fabrizio Trallori – storico del gruppo “Passeggiate tra Storia e Natura” del Circolo “I Risorti” – alla rifessione sulle epidemie nella storia della nostra città: “Prato 1630: A morbo, libera nos, Domine (Parte 1) – Cristofano di Giulio Ceffini, un contabile contro la Peste “manzoniana”
Prato 1630: A morbo, libera nos, Domine (Parte 1)
Cristofano di Giulio Ceffini, un contabile contro la Peste “manzoniana”
a cura di Fabrizio Trallori
Oggi, giorno di San Patrizio. Patrono d’Irlanda, mi piace ricordare la vicenda di un contabile Pratese che, per la sua probità e avvedutezza, fu chiamato a fare il Provveditore di Sanità tra il 1629 ed il 1633 quando una terribile pestilenza fece seguito a anni di carestie e guerre, decimando intere comunità: in Italia, secondo le stime, morirono oltre 1.100.000 persone su una popolazione totale poco superiore ai 4.000.000 (quasi 500.000 nella sola Italia Settentrionale). In quei giorni (resi celebri dalle pagine manzoniane dei Promessi Sposi e della Storia della Colonna Infame) operava infatti a Prato Cristofano di Giulio Ceffini, un contabile che non si era mai occupato di sanità, ma che gli Ufficiali di Sanità della città elessero a loro Provveditore, come detto, per la fama di onestà e generosità di cui godeva in città.
La Prato (o meglio, il Castello di Prato, come era chiamata la città a causa della sua cinta muraria duecentesca ancora intatta) di quel tempo ci viene descritta da un paio dii viaggiatori inglesi alla fine del XVI secolo. Il primo è Sir Fynes Morrison, che arrivò sulle sponde del Bisenzio in una tarda mattinata della primavera del 1594. Aveva deciso di fare a piedi il tragitto da Firenze a Pistoia “pensando di poter vedere con maggior agio le città vicine. tanto poco distanti l’una dall’altra che un viaggio a piedi diventa un piacere, specie in un paese così bello”. Annota nel suo diario di viaggio che Prato “è di forma rotonda, e proprio all’ingresso ha una vasta piazza da mercato; vi si trova una bella Cattedrale, adorna di molti fregi di marmo”. Poi, dopo aver mangiato al modico prezzo di 12 crazie, era ripartito, nel pomeriggio, verso Pistoia (ad un prezzo cinque volte maggior rispetto a quanto pagato a Prato), dove avrebbe cenato e pernottato.
Due anni più tardi, nel 1596, arrivò in Val di Bisenzio anche un altro suo conterraneo, sir Robert Dallington: che ci racconta Prato nel suo diario di viaggio. La città, circondata da una forte cinta di mura moderne (Cosimo I aveva provveduto a fornire l’antica cinta medievale con moderni bastioni), contava tra le sue mura circa 6-7.000 abitanti, cui si aggiungevano i circa 8-9.000 abitanti sparsi sul contado della città (la fascia di territorio di circa 14 km intorno alle mura cittadine). Circa 2000 di questi erano religiosi (frati, sacerdoti, monaci e monache) che servivano nelle 59 chiese e 30 monasteri presenti sul territorio. Dallington, che rimane a Prato per 4 mesi, assiste anche alle celebrazioni per l’ostensione della Sacra Cintola, e ci racconta come arrivassero in città, in quell’occasione, almeno 20.000 forestieri che, osserva, più che per devozione accorrono in città per fare affari sulla grande Piazza del mercato. La città però porta ancora evidenti i segni del Sacco del 1512 (in ricordo di quei giorni, definire qualcuno Spagnolo, a Prato, era un’offesa al pari di furfante, manigoldo, poltrone, traditore) e le strade e le piazza sono affollate di poveri e mendicanti in una città ed in una Toscana in cui, nascoste dietro il sipario fatto dalle grandi opere d’arte delle città, “…la povertà e la fame, non avevano un regno più grande…”.
In Toscana, le prime notizie circa il dilagare della Peste intorno al Lago di Como, a Bergamo e Milano erano arrivate i l 21 ottobre 1529 ed il 26 dello stesso mese, gli Ufficiali della Sanità di Firenze avevano spedito una lettera a tutte le comunità del Granducato con la quale si davano le prime disposizioni per affrontare la prevedibile epidemia, a partire dalla chiusura delle porte cittadine e dei valichi di frontiera, che dovevano essere presidiati da guardie incaricate di fare controlli sanitari, frati predicatori compresi: senza vaccinazioni e non potendosi affidare solo alle preghiere, il ricorso ad un rigido cordone sanitario era la sola soluzione possibile. IL 27 ottobre il Consigli0 di Prato elesse i quattro Ufficiali di Sanità cui diede poteri su tutto ciò che, direttamente o indirettamente, riguardava la salute pubblica. Come di consueto vennero approntate due linee di difesa: la prima era il rigoroso controllo dei valichi e dei guadi ai confini del territorio (Vernio, Montepiano, Capalle, il Montalbano, Agliana, Montemurlo, ecc..), la seconda era alle porte della città, anch’esse presidiate giorno e notte: considerato l’inverno particolarmente rigido, si decise di costruire delle baracche per le guardie presso le porte della città più frequentate (Mercatale, Fiorentina e Pistoiese). Il 1 novembre Prato scriveva a Firenze che il controllo del territorio era già operante ed in questa situazione i pratesi passarono l’inverno, sperando invano nel miracolo: ai primi di maggio del 1630 arrivarono in città le notizie circa l’arrivo della Peste a Bologna. Il nemico era dunque alle porte e le misure di prevenzione vennero rese più rigide: ogni città doveva munirsi di un addetto al rilascio dei passaporti sanitari (detti “bollette”), che dovevano essere elargiti con parsimonia ed attenzione: nessuno che ne fosse sprovvisto poteva muoversi nelle terre del Granducato e tantomeno entrare in città o villaggi. A prato il 16 maggio già operava un ufficio a questo predisposto.
Il peggiorare delle notizie provenienti da Bologna (che il 14 giugno fu messa al bando, oggi diremmo fu dichiarata zona rossa) portò il governo granducale a misure ancora più aspre: il Gran Duca Ferdinando II mandò 30 cavalleggeri della sua guardia personale a presidiare i valichi di frontiera e soldati furono mandati lungo tutto il confine settentrionale dello Stato, stabilendo un posto di guardia ogni tre miglia (poco meno di 4 km). Inoltre si ordinò a tutti coloro che abitavano presso il confine di stare all’erta: se avessero scorto passare forestieri in luoghi in cui non erano presenti presidi militari, “che si levi la grida di coro e si dia la campana in alarmi et che si perseguitino detti malfattori per ritenerli e fatti prigioni” . Il 6 luglio le autorità sanitarie fiorentine ordinarono a tutte le comunità soggette di impedire anche qualsiasi spostamento di frati, a qualunque ordine appartenessero e Prato provvide poco dopo a dotare di cancelli le porte cittadine di Santa Trinita, Porta Fiorentina e Porta del Mercatale. Il massimo che a quel tempo si poteva fare era stato fatto, ma fu tutto inutile: alla metà di luglio la peste apparve a Trespiano, sulla via Bolognese alle porte di Firenze, ed i primi di agosto ci furono i primi casi a Tavola, forse portati da domestici di casa Medici in servizio presso Le Cascine.
Trespiano e Tavola furono isolate, ma tra i medici e nelle fila della pubblica amministrazione le posizioni cominciarono a farsi incerte: i sanitari erano incerti nelle diagnosi e tra loro erano sorte accese dispute sulla natura di quelle morti sospette, divisi tra coloro che (come dice il Manzoni) “convinti come loro, della realtà del contagio, suggerivano precauzioni, cercavano di comunicare a tutti la loro dolorosa certezza. I più discreti li tacciavano di credulità e d’ostinazione: per tutti gli altri, era manifesta impostura, cabala ordita per far bottega sul pubblico spavento”. Il senso di frustrazione degli otto ufficiali pratesi di fronte allo stato dei fatti è reso evidente da una lettera da loro scritta a Firenze:
“… ben che la peste cominciossi fina dal mese di agosto 1630, se bene lentamente, non sitenen cura del progresso che faceva pensandosi che di giorno in giorno dovessi terminare, vivendosi anco veramente con poco pensiero di quello che era per succedere, cagionato dalla inesperienza che si aveva in simile accidente.”
Inoltre anche un buona parte dei governanti e degli amministratori granducali preferiva non pronunciarsi apertamente sulla natura del contagio a causa delle conseguenze economiche che la notizia di una pestilenza avrebbe comportato, per non diffondere la paura e la preoccupazione e per evitare che gli altri Stati decidessero di chiudere le loro frontiere alle merci ed ai mercanti toscani specie in quell’anno 1630, ottimo per il vino, prodotto che costituiva insieme al pannolana ed alla seta il traino dell’economia toscana (e molti pratesi, nonostante il villaggio di Tavola fosse già stato chiuso per alcuni decessi sospetti, vi andarono a vendemmiare. Per questo gli ufficiali fiorentini (sicuramente su sollecitazione del governo granducale) non vollero acconsentire alla richiesta dei pratesi che il 3 settembre avevano chiesto all’autorità centrale il permesso di costruire un lazzaretto sostenendo che Firenze era in grado di dare ogni aiuto e che, in fondo, l’arrivo delle piogge autunnali, avrebbe contribuito a migliorare la situazione.
Poi tutto precipitò. Il 16 settembre Niccolò Bardazzi, in servizio alla Misericordia di Prato come addetto ai casi di quelle morti sospette si ammalò e morì il 19: tre giorni di agonia, esattamente come era successo per la peste bubbonica del 1348): Firenze fu immediatamente avvertita ed il giorno 20 gli ufficiali pratesi ricevettero la lettera di risposta dell’Ufficio di Sanità Granducale. Una lettera coincisa, telegrafica, chiara per evitare fraintendimenti e permettere un’azione rapida ed efficace:
1. Ordinerete subito che le persone della sua famiglia si serrino nella casa dove è morto, che le robbe dove è stato il malato e morto si separino dalle altre.
2. La porta dela casa per di fuori si spranghi.
3. Si usino zolfo, ginepro ed altri legni odorosi “ad purgandum domos infectas”
4. La famiglia del medesimo morto si alimenti dandogli i viveri per le finestre.
5. E si facci diligenzia che non possino escire di detta casa da nessun luogo. […]
Il tutto si faccia et eseguisca subito.
Nonostante ciò, il 2 ottobre il governo di Firenze ricevette la temuta risposta da Prato: la città era in preda alla peste.
La popolazione invocò l’Aiuto Divino e nonostante il divieto per gli assembramenti di folla in vigore (come era normale in questi casi) le autorità si videro costrette a permettere, tra l’inizio del mese di ottobre ed i primi giorni di novembre, almeno 4 grandi processioni devozionali alla Vergine, ma le autorità preferirono anche aiutare l’intervento Divino con il potenziamento delle strutture sanitarie cittadine, anche se in città operavano sette medici praticanti (4 medici, di cui 1 che aveva ottenuto il dottorato ma non aveva mai praticato, tre barbieri-chirurghi: mastro Gramigna, mastro Cepparelli e mastro Tiburzio) per una popolazione, come abbiamo visto, di circa 17.000 anime, proporzione che, per quei tempi, era abbastanza alta.
La prima decisione fu quella di organizzare un lazzaretto: la città poteva contare sull’Ospedale della Misericordia e su quello di San Silvestro (detto a Prato anche Spedale di Dolce, in Piazza San Marco), ma dato che il primo era destinato soprattutto all’assistenza dei bambini abbandonati, si optò per il secondo, con l’annessa chiesa: in cambio la Misericordia si sarebbe accollata le spese per l’allestimento e quelle spese per i viveri, le medicine ed il combustile necessario al riscaldamento; la Comunità, invece, avrebbe provveduto al pagamento del personale necessario all’assistenza ai malati. In pochi giorni, l’Uficio di sanità di Prato arruolò un piccolo esercito di 25 uomini per combattere al lazzaretto la battaglia contro quel nemico invisibile: un confessore, un chirurgo, alcuni assistenti, becchini (non proprio eroi: tra di loro c’era anche un noto criminale ed altri estorcevano denaro alle famiglie dei defunti facendosi pagare per ogni corpo che portavano via, ed a Prato godevano di nomignoli non proprio degni di persone perbene come Michelaccio e Vaccaio), guardie, un messaggero, un uomo per distribuire i viveri a coloro che erano confinati in casa e un altro per trasportare i materiali dall’Ospedale della Misericordia a San Silvestro.
Il primo medico a doversi cimentare con la peste al Lazzaretto fu mastro Gramigna, ma il 13 ottobre era già morto; fu assunto allora mastro Tiburzio, morto anche lui 9l 1 novembre: Mastro Cepparelli, l’unico rimasto, si affrettò a rifiutare l’incarico adducendo la motivazione di essere ormai troppo vecchio per quell’incarico, di non volersi occupare degli appestati e di voler continuare a prestare la sua opera ed i suoi servizi al resto della popolazione. Motivazioni accettate dagli Ufficiali si sanità: comunque all’inizio di novembre anche lui si ammalò (di malattia non specificata), ma sopravvisse. Così Prato rimase senza chirurgo nel Lazzaretto, una figura più necessaria del medico, perché era capace di incidere i bubboni, dando sollievo all’ammalato e affrettando la guarigione.
Ma la mancanza del chirurgo non fu il solo problema che gli ufficiali di sanità pratesi dovettero affrontare. Il fatto di aver costruito il lazzaretto nel centro città non permetteva di tenere i malati in isolamento completo, con gente che riusciva ad uscire e parenti che riuscivano ad entrare. Così si decise di spostare il lazzaretto fuori dalle mura cittadine, e si cominciò a discutere sul luogo, discussione che si allungarono a causa dell’arrivo in città del chirurgo mandato da Firenze, il Coveri, che non si trovò d’accordo sulle scelte degli ufficiali pratesi. Il luogo da loro individuato per il lazzaretto era il Convento di Sant’Anna Vecchia, ma per il chirurgo fiorentino le stanze al primo piano dell’edificio erano troppo umide per poter essere destinate all’accoglienza dei malati, e proponeva perciò il convento dei francescani in località il Palco, che per i pratesi era difficile da raggiungere, collegato alla città com’era da una strada non proprio in ottime condizioni, ed in una posizione che, in inverno, sarebbe stata deleteria per i malati, esposti al freddo ed alle intemperie. Si era invece d’accordo nel considerare luogo ideale per il convalescenziario la Villa dei Gori presso Il Palco.
A quel punto si accese però la disputa perché nessuna delLe due comunità religiose (né gli eremitani di Sant’Anna Vecchia, né gli Zoccolanti del Palco erano intenzionati a cedere il loro convento): gli Zoccolanti accusarono il Coveri di collusione con gli Eremitani di Sant’Anna ( “questa sera è andato a cena da quei padri…”), mentre i padri di Sant’Anna ricordarono agli Ufficiali pratesi la concessione fatta loro dal Cardinale Giovanni de’ Medici (in occasione del Sacco di Prato del 1512 quando il futuro Papa Leone X, grato alla Vergine per essere sfuggito al bombardamento del convento da parte dei pratesi, affrancò dalla giurisdizione pratese il convento di Sant’Anna). Chiedevano pertanto che il Granduca Ferdinando II rispettasse quel privilegio e di fatto negavano la loro disponibilità a ospitare il Lazzaretto. La decisione spettò d’ufficio all’Ufficio di Sanità di Firenze che ratificò la scelta di Sant’Anna per il Lazzaretto e Il Palco per i convalescenti tra il 18 ed il 20 novembre.
Ma trasferire in inverno i malati tra i due luoghi si rivelò subito problematico: così si decise di requisire come luogo per la convalescenza una villa che sorgeva vicino a Sant’Anna, di proprietà di Lattanzio Vai, canonico della Pieve di Santo Stefano e appartenente ad una delle famiglie più in vista di Prato. E mentre gli Uficiali di Sanità pratese erano occupati a trovare un alloggio in Prato ai padri eremitani sloggiati da Sant’Anna, Lattanzio Vai scrisse una lettera in cui si lamentava per la scelta degli ufficiali pratesi, sostenendo che nella zona c’erano molti altri edifici più adatti del suo allo scopo. Di fronte all’intervento della Sanità fiorentina (evidentemente istigata dagli “amici” della cui protezione Lattanzio Vai godeva sulle rive dell’Arno), il Podestà di Prato perse la pazienza e, convocato il suo segretario, gli fece redarre una lunga e dura lettera di risposta a Firenze, accusando don Lattanzio di falso: egli non viveva nella villa, ma a Prato e non aveva solo quella dimora in cui abitare, ma possedeva altre due case in città e tre ville nel contado.
Da Firenze non arrivò nessuna reazione e così gli ufficiali pratesi trovarono un accordo tra tutte le parti in causa: i frati di Sant’Anna concessero ai pratesi di realizzare il convalescenziario in un podere vicino al convento, mentre don Lattanzio, grato agli Eremitani per la loro generosità, fece una consistente elemosina al convento.
Così, il 14 gennaio 1631, nel pieno dell’inverno, i 43 degenti del lazzaretto di San Silvestro vennero finalmente trasportati in una lunga processione fino a Sant’Anna, dove trovarono ad aspettarli il nuovo cerusico loro assegnato, eletto appena il giorno prima: si trattava del giovane Giacinto Gramigna, figlio del primo responsabile medico del lazzaretto di San Silvestro, che aveva appreso il mestiere lavorando col padre: non aveva nessun titolo specifico in materia sanitaria, ma in quelle condizioni d’emergenza ci si doveva accontentare. C’è anche da dire che nessuno dei 43 malati morì in quel viaggio, e nemmeno nei giorni successivi. A gestire questa situazione era stato eletto, il giorno 11 dicembre il nuovo Provveditore dell’Ufficio di Sanità pratese, l’esimio cittadino Cristofano di Giulio Ceffini.